TMB/Astro-Professional Planet Hunter 80

di Raffaello Braga

Il rifrattore da 80 mm è un telescopio che non tramonterà mai. Ai tempi in cui il “made in Japan” costituiva una parte rilevante della produzione ottica astronomica, era uno strumento molto ambito, diciamo un telescopio per l’astrofilo “serio”, con cui si potevano fare, tra le altre cose, bellissime fotografie della fotosfera solare e della Luna nonostante gli esili tubi fuocheggiatori e le montature ballerine. Erano telescopi di focale lunga, tipicamente tra f/11 e f/15, che funzionavano bene anche con oculari semplici e poco costosi.

Oggi l’80 mm sopravvive soprattutto come astrografo da viaggio apocromatico o semi-apocromatico mentre le versioni acromatiche lunghe sono limitate a cineserie “entry level”, sovente plasticose nelle parti meccaniche. L’azienda Long Perng Co. ha partorito in tempi recenti un 80 mm f/10, ma non è un acromatico in quanto monta un elemento a bassa dispersione.

Tra le ultime realizzazioni (o forse l’ultima) di un certo livello nell’ambito degli 80 mm acromatici commerciali vi è il TMB/BOC Planet Hunter 80, che ha 900 mm di focale. Il Planet Hunter nasce nei primi anni 2000 in casa Burgess Optical (BOC) da un progetto di Thomas Back. L’intento era quello di dar vita a un acromatico migliorato (“enhanced achromat”) con uno spettro secondario contenuto e particolarmente indicato per l’osservazione di astri brillanti. I vetri impiegati per questo obiettivo erano gli Ohara S-PHM53 e S-LAH51.

Ho sempre desiderato possedere un esemplare di questo strumento dopo averne letto mirabilia su “Choosing and Using a Refracting Telescope” di Neil English, pubblicato da Springer, e aver visto i disegni di Giove e Saturno realizzati con questo strumento da Sol Robbins e il test di Bill Paolini su Cloudynights.

Il Planet Hunter (PH per brevità nel seguito) ebbe vita breve e venne prodotto in un numero limitato di esemplari oggi molto ricercati nel mercato dell’usato. Erano stati previsti anche altri diametri, maggiori di 80 mm, ma che non videro mai la luce a livello commerciale. L’erede del PH 80 è oggi un apocromatico alla fluorite da 91 mm, che sarà magari anche uno strumento eccezionale ma insomma è tutt’altra cosa rispetto al progetto originario. Gli obiettivi rimasti dalla produzione BOC, già incellati, vennero acquisiti dal brand Astro-Professional che lo ripropose per pochissimo tempo ancora. Di questa seconda versione ne esistono ancor meno esemplari che dell’originale BOC.

Il mio, marchiato appunto Astro-Professional, mi arrivò da un astrofilo inglese che nel tentativo di pulirlo lo trattò malissimo, ma ormai ho una certa esperienza nel rimettere in sesto rifrattori malandati, sia acromatici che apocromatici, e quindi è stato abbastanza semplice rimediare.

TUBO OTTICO

Il tubo è lungo 92 cm dal tappo dell’obiettivo al riduttore 2”/31.8 mm. Il paraluce è avvitato sulla cella dell’obiettivo quindi la lunghezza del tubo non si può ridurre, ma non si tratta comunque di uno strumento ingombrante. L’ottica intubata, verniciata esternamente di bianco è realizzata interamente in alluminio e non vi sono parti in plastica, che del resto non sarebbero degne di figurare in uno strumento astronomico propriamente detto, soprattutto nella zona dell’obiettivo.

Il Planet Hunter 80 su Vixen Porta II, montatura adeguata per le osservazioni terrestri, meno per quelle astronomiche ma comunque utilizzabile a ingrandimenti medio-bassi.

L’interno del tubo reca due diaframmi a bordo tagliente: possono sembrare pochi ma l’opacizzazione è molto efficace e osservando dall’estremità portaoculari verso una sorgente di luce intensa non si notano riflessi indesiderati. L’obiettivo non risulta diaframmato, nemmeno col fuocheggiatore rientrato completamente, e quindi l’apertura libera si sfrutta per intero.

Il fuocheggiatore è un TS-GSO con demoltiplica 1:10, di movimento fluidissimo, dotato di regolazione della resistenza allo scorrimento e di blocco. Il portaoculari da 2 pollici, con serraggio in ottone comandato da due viti, è dotato della consueta riduzione a 31.8 mm. Il PH ha un backfocus ragguardevole, tanto che l’utilizzo dei diagonali da 31.8 mm richiede l’interposizione di una prolunga per riuscire a mettere a fuoco.

Il fuocheggiatore è un TS demoltiplicato da 2 pollici, mille volte meglio dei tubetti che un tempo equipaggiavano i classici rifrattori giapponesi di questo diametro. Forse su un f/11.7 la demoltiplica non è strettamente necessaria ma certamente rende l’osservazione più facile e piacevole, soprattutto se si desidera fotografare.

Tra la versione BOC e la successiva versione AP del Planet Hunter ci sono alcune piccole differenze: ad esempio il PH originale veniva dotato di un puntatore a led con reticolo, tipo red dot, mentre AP forniva un cercatore 6×30 (a mio avviso preferibile). Le scritte “Planet Hunter” sul tubo e TMB/BOC sul tappo dell’obiettivo erano presenti solo nel BOC, che aveva anche la prima versione del fuocheggiatore col tubo mobile non anodizzato. Entrambe le versioni erano intubate con componenti fabbricati a Taiwan.

L’apertura libera dell’obiettivo è di 77 mm contro gli 80 dichiarati, si tratta perciò in realtà di un f/11.7. Le lenti mostrano un trattamento antiriflesso di colore verde intenso, ciò garantisce un buon equilibrio tra il rosso e il blu e infatti lo strumento, contrariamente a quanto ho letto in un test sul web, è privo di dominanti cromatiche. Degli spaziatori originali uno è arrivato fuori posto e dovendo mettere le mani sull’obiettivo ho preferito rifarli con altri in alluminio un poco più grandi, rispettando ovviamente lo spessore originario.

L’obiettivo nella sua cella, spartana ma robusta e non plasticosa. Gli spaziatori originali erano dei minuscoli quadratini di plastica trasparente e li ho subito sostituiti con altri più adeguati allo scopo.

All’esame con l’oculare di collimazione il PH ha mostrato un allineamento quasi “spot-on”, perfettibile inclinando un po’ il fuocheggiatore con uno spessorino, ma ho ritenuto che non ne valesse la pena perché un rifrattore a f/11.7 ha un campo corretto veramente ampio che rende decentramenti minimi del tutto ininfluenti e nemmeno avvertibili allo star test.

Questo evidenzia in extrafocale un anello esterno di colore verdognolo e una serie di anelli interni di colore bluastro. In intrafocale tutti gli anelli sono di colore bianco. Questo aspetto è simile a quello osservabile nel mio TS 80ED. Interponendo un filtro Lumicon n. 11 le due immagini intra ed extra diventano decisamente più simili anche se non identiche. Esaminando le centriche con filtri blu e rossi è risultato che le immagini nel rosso sono più simili a quelle nel giallo-verde rispetto a quelle nel blu.

L’obiettivo presenta una lieve sovracorrezione che volendo si può ridurre aumentando lo spessore degli spaziatori ma non ho ritenuto necessario farlo anche per non alterare la configurazione ottica. A fuoco questo rifrattore genera comunque immagini di diffrazione molto regolari. Gli spaziatori originali sono comunque stati sostituiti durante il ripristino dell’obiettivo.

Paragonato side-by-side con uno Skywatcher 80ED il Planet Hunter se l’è cavata benone grazie alla cromatica ottimamente corretta e alla maggiore profondità di fuoco. Rispetto a un TS 80ED f/7 il PH ha evidenziato meno colore residuo e una migliore correzione complessiva.

PROVA SUL CIELO

Portando lo strumento in montagna ho dapprima esaminato un certo numero di stelle doppie circumpolari che dalla mia postazione milanese mi sono normalmente precluse e che sono tra le mie preferite. Ad esempio la bellissima Iota Cas, una stella multipla con oltre sette componenti di cui le più appariscenti sono la principale, giallastra, di mag. 4.6 e a sua volta doppia molto stretta, una compagna blu-porpora di mag. 6.9 a a 2.6” e una di mag. 9.0 a 6.7”. E’ un oggetto magnifico in un cannocchiale da 4 pollici ma anche il Planet Hunter ha mostrato facilmente queste componenti in una serata di seeing non ottimale. Nella stessa costellazione esistono moltissime altre doppie adatte a mettere alla prova un cannocchiale di 80 mm, ad esempio la Sigma, di mag. 5 con una compagna di 7.2 a 3.1”, poco più del doppio del limite di Dawes che è di 1.5”. Passando al Cigno ho separato con facilità la STT 437 AB (7.1 – 7.4 a 2.5”) e sono riuscito a scorgere la compagna di Delta Cyg, un oggetto non facile persino in un 4 pollici (2.9 – 6.3 a 2.8”) ma non impossibile se il seeing collabora.

In definitiva la notevole regolarità delle immagini di diffrazione e l’ottima correzione cromatica fa del PH un telescopio ideale per l’osservazione di stelle doppie e multiple. E’ vero che il limite di Dawes è ancora abbastanza alto (1.5”) ma bisogna tenere conto che le stelle doppie più belle del cielo boreale sono quasi tutte alla portata di questo cannocchiale, che nelle mani di un osservatore appassionato garantisce perciò molti anni di divertimento. Passando al Sistema Solare si deve tenere presente che un 80 mm non è uno strumento adatto all’esame dettagliato delle superfici planetarie a causa del limitato potere risolutivo. Permette però di osservare quasi tutte le caratteristiche più appariscenti dei pianeti, come le nubi a fascia e la grande macchia rossa di Giove (oltre ovviamente ai satelliti medicei), le tenui ombreggiature della coltre nuvolosa di Venere, le fasi di Mercurio e molti dettagli marziani. Questo è vero anche per i rifrattori da 4 pollici, un diametro che era più interessante in passato ma che oggi, grazie alla disponibilità di telescopi decisamente più grandi a un costo abbordabile, non ha più la stessa attrattiva. Per ottenere un significativo guadagno in termini di dettagli planetari rispetto al PH occorre avere sotto mano un rifrattore di almeno 12 cm o un riflettore da 15.

Puntato su Saturno, basso nel cielo settentrionale ma attraverso l’aria pulita e tersa della mia postazione in quota, il PH non ha evidenziato alcun colore spurio e mostrato molto bene la regione polare scura, la NEB con un accenno di divisione, gli anelli A e B con la divisione di Cassini, l’anello C alle anse e davanti al globo, il passaggio degli anelli sul pianeta e l’ombra del pianeta sugli anelli. Per l’osservazione ho usato un LV 6 (150x) e un SR 4 (225x). Quest’ultimo potere era veramente al limite perché l’immagine iniziava a diventare scura ma si vedevano meglio la Cassini e l’ombra del pianeta.

Il Planet Hunter su Vixen GP2, montatura perfettamente adeguata allo scopo.

Oltre alle stelle doppie, terreno ideale di impiego del PH è l’osservazione del Sole e della Luna. In quella del Sole, in particolare, un buon rifrattore da 80 mm fornisce immagini molto dettagliate dei fenomeni fotosferici e col metodo della proiezione si può impiegare per mostrare il Sole a più persone contemporaneamente. Osservando in luce bianca con prisma di Herschel Baader Cool Ceramic la nostra stella mostra una fotosfera molto contrastata in cui le facole e la granulazione si vedono senza alcuna difficoltà. Il lembo del Sole mostra un tenue e sottile orlo di colore blu molto scuro, quasi violetto, di entità davvero trascurabile, tanto che applicando all’oculare dei filtri gialli, verdi o il Baader Continuum non si nota alcun guadagno significativo in termini di contrasto.

Gli acromatici classici a lungo fuoco hanno uno sferocromatismo trascurabile e sono perciò molto adatti – sicuramente più di tanti finti apocromatici – alla fotografia del Sole in banda stretta, sia nel vicino UV sia in H-alpha, oltre che ovviamente in luce verde. Applicando infatti al PH il Daystar Quark Calcium, che lavora a 396.8 nm ho ottenuto immagini molto ben definite del disco solare, più di quanto non sia possibile ottenere col TS 80ED che nel giallo-verde ha uno spettro secondario paragonabile ma a questa lunghezza d’onda ha evidentemente uno sferocromatismo maggiore che impatta sulla nitidezza. Non ho notato invece differenze significative tra i due nell’imaging in H-alfa col Daystar Quark Cromosfera anche se col PH sarebbe preferibile la versione Combo per non aver a che fare con focali eccessive, non sempre necessarie nonostante quello che scrivono i sacri testi.

La granulazione inversa della cromosfera ripresa col Planet Hunter e filtro Daystar Quark al calcio.

Passiamo alla Luna. Osservando il cratere lunare Gassendi sono riuscito a vedere bene la rima VII in tutta la sua estensione e a vedere la traccia della II, oltre ai craterini Gassendi M e P. Lungo il terminatore la visione è sempre stata contrastatissima senza il minimo accenno di aberrazione cromatica nemmeno oltre i 200x (la si notava solo al bordo ma molto contenuta). Il PH è pertanto uno strumento col quale i filtri di abbattimento dello spettro secondario risultano non solo inutili ma persino deleteri e se ne può perciò fare del tutto a meno.

ACCESSORI

Il rapporto focale del PH lo rende tollerante con qualunque accessorio ottico, ad esempio ho ottenuto delle buonissime immagini planetarie usando un semplice prisma diagonale Vixen e non ho notato differenze significative sostituendolo con deviatori di qualità superiore come il Baader Zeiss o l’Astro-Tech dielettrico a specchio.

Anche come oculari il PH va a nozze con schemi semplici come gli Huygens, i Ramsden e i Kellner purché siano di buona qualità. I miei preferiti per l’osservazione planetaria sono infatti dei Ramsden Towa da 4, 5 e 9 mm di focale e un RKE da 8 mm che avendo aberrazione cromatica laterale permettono anche di eliminare i colori dovuti alla dispersione atmosferica. Dei buoni Huygens da microscopio come gli Zeiss abbinati a una lente di Barlow possono costituire una valida alternativa.

Nell’osservazione del cielo profondo non è necessario usare gli oculari complessi e costosi con cui sono costretti a fare i conti (economicamente parlando) i possessori di riflettori dobson; a f/11.7 i classici Erfle oppure Koenig a 4 lenti venduti sotto svariati marchi – quelli con 70° di campo, per intenderci – vanno benissimo e nei limiti dei suoi 80 mm il Planet Hunter mi ha regalato bellissime vedute della Via Lattea estiva e degli ammassi aperti dell’Auriga e di Perseo.

Per quanto riguarda le montature il PH si sfrutta tranquillamente con supporti non troppo impegnativi tipo Vixen GP, GP2 o Skywatcher EQ5.

CONCLUSIONI

Nel suo test pubblicato su CN, Bill Paolini scrive testualmente:

I desired a classic looking telescope which did not look like a toy, one built well, capable of performing well at higher powers, easier to move in and out the house than the big Dob, and one that could be had for a price that wouldn’t break my bank […] So the 80mm seemed to be the only way to go as long as something with this small aperture would perform on the targets I enjoyed observing.”

Non posso che sottoscrivere ciò che ha scritto Bill, con in più nel mio caso proprio la curiosità di provare questo strumento specifico. Oggi i piccoli telescopi sono molto snobbati, basta leggere i forum dove ai neofiti vengono spesso consigliati telescopi da 6, 8 o persino 10 pollici che poi nella maggior parte dei casi non sapranno sfruttare, soprattutto se riflettori. E’ un vero peccato perché a mio avviso non ci sono sostituti a un piccolo telescopio di qualità come palestra per farsi le ossa, e anche una volta che si è diventati più esperti è uno strumento che trova sempre il suo impiego: il PH è leggero e trasportabilissimo, fa regolarmente la spola tra la mia casa di Milano e quella in Trentino e lo uso sia per osservazioni personali itineranti sia per osservazioni pubbliche su una Vixen GPD2. Purtroppo non è più prodotto, ma di tanto in tanto su CN o su Astromart ne spunta un esemplare e allora, se si può, conviene approfittarne soprattutto se si tratta della versione originale BOC che è senza dubbio la più ricercata.